Con il nuovo singolo “Quando c’era il Liga”, Mac Parak riaccende la scintilla di una generazione cresciuta tra cassette, sogni e rock italiano. Un brano che è insieme dichiarazione d’amore alla musica e viaggio nella memoria, tra malinconia e voglia di riscoprirsi. Il cantautore e regista piemontese, dopo anni di silenzio, torna a raccontarsi con una maturità nuova ma con la stessa fame di libertà e autenticità che lo accompagna dagli esordi.
In questa intervista per Spettakolare, Mac Parak si apre tra aneddoti, ironia e riflessioni profonde: dagli anni ’80 e le prime band nei locali di provincia, fino all’importanza terapeutica della musica e alla genesi del suo nuovo singolo, nato “pensando a com’era bello essere adolescenti, ma con la consapevolezza di oggi”. Un racconto sincero e diretto, dove nostalgia e rock si intrecciano per dare voce a chi non ha mai smesso di credere nelle emozioni vere — quelle che non passano mai, proprio come un riff che continua a vibrare nel tempo.
Negli anni ’80 era impossibile non farsi travolgere. Crescevo ascoltando pop, rock e hair metal e, quando sei adolescente, vuoi solo emulare quelle band, vivere quella stessa scarica elettrica. È nato tutto da lì, come un istinto naturale: o la musica ti entra dentro, o non ci entra affatto. A me è esplosa!
Il tuo primo ricordo legato alla musica?
Un compagno delle medie, Andrea, mi regalò una musicassetta. Dentro c’erano Bon Jovi, Dio, Guns N’ Roses, Cinderella, White Lion e Whitesnake. E niente… ciaone. Da lì la mia vita ha preso una piega ben precisa. È stata la mia iniziazione.
Come definiresti la musica?
Terapia.
In un’unica parola. È quella cosa che ti aggiusta dentro quando fuori tutto fa rumore.
Quali sono gli artisti che hanno influenzato maggiormente il tuo percorso?
Sicuramente David Coverdale dei Whitesnake. L’ho emulato per decenni, con risultati alterni ma con dedizione totale (ride). Poi Ligabue: lo ascolto, lo sento, e a volte mi capita di “imitarlo” senza volerlo. È una somiglianza d’anima, più che di voce.
Con chi ti piacerebbe collaborare o duettare?
Vorrei duettare con Ema Stokholma: le darei un ritornello in francese, perché la sua voce e il suo mondo hanno una classe pazzesca. E poi, visto che si può sognare, con Clara Soccini. Ma lì entriamo in un altro tipo di collaborazione... diciamo che ne sono innamorato perso! (ride)
Che rapporto hai con la musica e quali difficoltà hai incontrato all’inizio?
Il rapporto di tutti: la musica è salvezza, terapia, divertimento e passione. All’inizio le difficoltà erano il pane quotidiano, non ricordo una gioia. Anzi, forse il bello di quel periodo è che anche avendo solo 19 anni e avendo una band, i locali ti chiamavano per suonare e ti dicevano “se porti gente, ti paghiamo” e, cosa vuoi, a quell’età tutti gli amici ti supportano, quindi riempivamo sempre un locale che si chiamava Golden Pub, a Novara, ergo ci chiamavno sovente. Poi chiuse, come mille altri locali. La musica dal vivo esisteva: c’era una guerra (pacifica) tra band per ottenere i palchi nei vari locali delle province.
Qual è la tua musica di riferimento?
Tutto ciò che mi emoziona.
Cosa ti ispira nella scrittura dei testi?
La malinconia. I ricordi. Le cose che non tornano, e quelle che non dovrebbero esserci mai state. In “Io chiedo”, ad esempio, c’è tutto lo schifo che vedo nel mondo. Scrivere è il mio modo di non urlare… troppo forte.
Ci parli del tuo ultimo singolo: com’è nato?
Di idee ne ho sempre mille, spesso legate al passato. Un giorno ho pensato: “Cazzo, com’era bello essere adolescente”. Poi ho aggiunto mentalmente: “…ma col punto di vista di oggi, eh”. Ripensando a quei tempi, agli 883 e al Liga, la canzone è venuta da sé.
Cosa ti ha spinto a scrivere canzoni tue?
Sono uno storyteller da oltre 25 anni. Ho sempre scritto per altri, ma a un certo punto ho sentito il bisogno di raccontare me. Stavolta in musica, e con un rock italiano diretto, sincero e un po’ generazionale. È il mio modo per parlare alla Gen X — quelli che hanno ancora una cassetta in un cassetto.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Un nuovo album digitale, in uscita a gennaio 2026. Sarà personale, nostalgico, malinconico… ma fottutamente rock! E poi, certo, continuo con la regia e la docenza: sono la mia quotidianità, quella che mi tiene coi piedi per terra mentre la testa vola tra le note.

