Con “Se tu fossi qui”, Tommaso Sangiorgi ci accompagna dentro una storia personale e dolorosa, vissuta con la delicatezza di chi sa trasformare una ferita in canzone. Il singolo, nato da un’amicizia finita in modo brusco dopo una confessione d’amore, mescola malinconia e leggerezza, offrendo uno sguardo sincero su ciò che resta dopo una delusione.
Cantautore dalla penna sensibile, Tommaso racconta come la musica sia per lui una forma di cura, un modo per fare ordine tra i sentimenti e raccontare se stesso. Cresciuto ascoltando Battisti, Dalla, Cremonini e con solide radici nel rap, l’artista unisce influenze diverse in un linguaggio emotivo e diretto.
In questa intervista, ci ha parlato del suo percorso, delle prime emozioni sul palco, dei suoi riferimenti musicali e dei sogni nel cassetto. E ci anticipa che il 2025 sarà ricco di nuove uscite.
Ci spieghi un po’ com’è nata la tua passione per la musica?
La passione per la musica è nata in modo molto naturale, quasi senza che me ne accorgessi. In casa mia, fin da piccolo, c’era sempre musica nell’aria. Mia madre mi faceva ascoltare le cassette dei suoi artisti del cuore, come Lucio Dalla e Lucio Battisti, e quelle melodie, quei testi, hanno cominciato a entrare dentro di me come una seconda lingua.
Il primo vero momento in cui ho capito che la musica poteva essere anche qualcosa di mio è stato alle elementari, durante una recita scolastica. Il mio insegnante mi fece cantare una canzone di Ivana Spagna, La gabbianella e il gatto. Salire su quel palco, superare la paura, e sentire alla fine un applauso spontaneo, forte, da parte di tutti… è stato uno di quei momenti che non si dimenticano. È lì che si è accesa una scintilla.
Poi è arrivata la scrittura. A 14-15 anni ho iniziato a scrivere i miei primi testi insieme a un amico, prima in forma rap, poi piano piano mi sono avvicinato al cantautorato. Da allora non ho più smesso. La musica è diventata il mio modo di leggere il mondo e raccontare quello che sento.
Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica?
Oltre ai momenti in cui mia madre mi faceva ascoltare i suoi cantautori di riferimento – Battisti, Dalla, e tutti quei grandi della musica italiana – uno dei miei primi ricordi legati alla musica è il mio primo concerto. Avevo solo quattro anni quando i miei genitori mi portarono a vedere i Pooh in Piazzale Roma, a Riccione.
Ovviamente, a quell’età, i ricordi sono un po’ sfocati, ma due cose me le porto ancora dentro con chiarezza: la grandezza del palco, che ai miei occhi di bambino sembrava gigantesco, e il fatto che mi avessero sistemato nel pit, proprio sotto il palco, con il passeggino e i tappi nelle orecchie per proteggermi dal volume. Era tutto nuovo, enorme, travolgente…
La tua definizione di musica.
Dare una definizione sintetica di musica per me non è facile, anche perché, lo ammetto, non ho proprio il dono della sintesi! Però se devo provare a spiegarlo, direi che fare musica per me è un processo terapeutico. È un po’ come andare dalla psicologa, con la differenza che non c’è nessuno di fronte a me: è la musica stessa ad aiutarmi a fare ordine dentro.
Quando scrivo, affronto spesso situazioni che mi hanno segnato: amori finiti, amicizie interrotte, nostalgie, mancanze. Tutte quelle emozioni che creano un groviglio dentro. Metterle su carta, cantarle, trasformarle in canzoni, è un modo per osservarle da fuori. In qualche modo è come scattare una fotografia emotiva di un momento preciso della mia vita.
Fare musica, per me, significa proprio questo: dare un nome a ciò che provo, capire meglio chi sono, e allo stesso tempo prendere un po’ di distanza da ciò che mi fa male. È un atto di consapevolezza e liberazione insieme. Credo anche che cantare il dolore sia un modo per provare meno male.
Quali sono i cantanti che hanno maggiormente influenzato il tuo percorso artistico?
Nel mio percorso artistico ci sono stati tanti incontri musicali significativi. Fin da piccolo, grazie a mia madre, ho avuto la fortuna di ascoltare artisti come Lucio Battisti e Lucio Dalla: erano la colonna sonora di casa, le loro canzoni mi arrivavano anche prima che potessi capirne davvero le parole. Sono stati fondamentali per farmi percepire la potenza emotiva che può avere una canzone.
Poi, crescendo, ho iniziato a costruire il mio gusto musicale e ad avvicinarmi ad altri cantautori che hanno lasciato un segno forte. Cesare Cremonini, per esempio, ha influenzato molto il mio modo di scrivere: la sua capacità di raccontare il quotidiano con poesia e leggerezza è qualcosa che ammiro tantissimo. Allo stesso modo, l’ondata indie italiana – da Calcutta a Gazzelle – mi ha fatto capire che si può parlare di emozioni con un linguaggio diretto, senza perdere profondità.
Ma le mie radici affondano anche nel rap. Ho iniziato proprio scrivendo rap, e artisti come Marracash, Fabri Fibra e Inoki sono stati fondamentali per farmi avvicinare alla scrittura. Dal rap ho imparato la sincerità cruda, la necessità di dire le cose come stanno, senza filtri. Anche se oggi scrivo in una forma più cantautorale, quel tipo di approccio è rimasto dentro di me.
Insomma, il mio percorso è fatto di ascolti molto diversi tra loro, ma che in qualche modo si sono incontrati dentro la mia musica, fondendosi nel mio modo di raccontare le emozioni.
Con chi ti piacerebbe collaborare o duettare?
A livello autorale, uno dei miei sogni più grandi sarebbe collaborare con Mogol. Parliamo del maestro assoluto della canzone italiana, una figura che rappresenta l’eccellenza nella scrittura. Ogni volta che scrivo un testo, dentro di me c’è un desiderio quasi nascosto di riuscire a toccare almeno un briciolo della profondità con cui lui sapeva raccontare le cose semplici. Aveva una capacità straordinaria di entrare nell’anima delle piccole cose e di guardarle da angolazioni nuove, sorprendenti. Per me, quello è il vertice della scrittura.
A livello di duetti, mi piacerebbe moltissimo collaborare con Nayt, che stimo tantissimo per la sua scrittura lucida, profonda e sempre personale. E poi mi piacerebbe anche duettare con Gazzelle, perché riesce a dare voce a un certo tipo di malinconia con una leggerezza e una melodia che sento molto vicine al mio mondo musicale.
Parliamo del tuo ultimo singolo: come è nata l’idea per questo brano?
“Se tu fossi qui” nasce da un’esigenza profonda: quella di liberarmi da un peso che mi portavo dentro e da un imbarazzo che provavo nei confronti di una situazione che mi sono vissuto con una ragazza. Mi ero innamorato di una mia amica, una persona con cui avevo un legame bellissimo. Quando ho trovato il coraggio di confessarle ciò che provavo, oltre al gran palo – diciamolo, una friendzone devastante – si è rotta completamente anche l’amicizia.
Quella perdita, quella rottura totale, mi ha lasciato un vuoto enorme. C’era dolore per quello che non è stato, ma anche per quello che si è perso. E così è nata la canzone, come uno sfogo. Dentro ci sono nostalgia, malinconia, rammarico, e anche un po’ di ironia, quella che cerco sempre di usare per alleggerire il cuore. Perché a volte, per non piangere, non ti resta che riderci su.
Qualche novità che vuoi condividere, in anteprima, con i nostri lettori?
Usciranno tante tante canzoni quest’anno, quindi “Stayyyy tuuuned”