Con "Se tu fossi qui",
Tommaso Sangiorgi ci regala una ballata intima che fonde cantautorato e pop
contemporaneo. Il brano racconta la storia di un amore non ricambiato,
trasformato in amicizia dalla persona amata, lasciando l'autore a fare i conti
con il dolore e la confusione. La canzone, arricchita da un'atmosfera
malinconica e speranzosa, esprime la nostalgia per un amore che avrebbe potuto
essere, con il ritornello che affida alle voci degli ascoltatori il compito di
trasmettere emozioni impossibili da raggiungere direttamente. Un'opera che
trasforma il dolore in arte, offrendo conforto a chi ha vissuto esperienze
simili.
Ci spieghi un po’ com’è nata la
tua passione per la musica?
La passione per la musica è nata in modo
molto naturale, quasi senza che me ne accorgessi. In casa mia, fin da piccolo,
c’era sempre musica nell’aria. Mia madre mi faceva ascoltare le cassette dei
suoi artisti del cuore, come Lucio Dalla e Lucio Battisti, e quelle melodie,
quei testi, hanno cominciato a entrare dentro di me come una seconda lingua.
Il primo vero momento in cui ho capito che la
musica poteva essere anche qualcosa di mio è stato alle elementari, durante una
recita scolastica. Il mio insegnante mi fece cantare una canzone di Ivana
Spagna, La gabbianella e il gatto.
Salire su quel palco, superare la paura, e sentire alla fine un applauso
spontaneo, forte, da parte di tutti… è stato uno di quei momenti che non si
dimenticano. È lì che si è accesa una scintilla.
Poi è arrivata la scrittura. A 14-15 anni ho
iniziato a scrivere i miei primi testi insieme a un amico, prima in forma rap,
poi piano piano mi sono avvicinato al cantautorato. Da allora non ho più
smesso. La musica è diventata il mio modo di leggere il mondo e raccontare
quello che sento.
Qual è il tuo primo ricordo
legato alla musica?
Oltre ai momenti in cui mia madre mi faceva
ascoltare i suoi cantautori di riferimento – Battisti, Dalla, e tutti quei
grandi della musica italiana – uno dei miei primi ricordi legati alla musica è
il mio primo concerto. Avevo solo quattro anni quando i miei genitori mi
portarono a vedere i Pooh in Piazzale Roma, a Riccione.
Ovviamente, a quell’età, i ricordi sono un
po’ sfocati, ma due cose me le porto ancora dentro con chiarezza: la grandezza
del palco, che ai miei occhi di bambino sembrava gigantesco, e il fatto che mi
avessero sistemato nel pit, proprio sotto il palco, con il passeggino e i tappi
nelle orecchie per proteggermi dal volume. Era tutto nuovo, enorme,
travolgente…
La tua definizione di musica.
Dare una definizione sintetica di musica per
me non è facile, anche perché, lo ammetto, non ho proprio il dono della
sintesi! Però se devo provare a spiegarlo, direi che fare musica per me è un
processo terapeutico. È un po’ come andare dalla psicologa, con la differenza
che non c’è nessuno di fronte a me: è la musica stessa ad aiutarmi a fare
ordine dentro.
Quando scrivo, affronto spesso situazioni che
mi hanno segnato: amori finiti, amicizie interrotte, nostalgie, mancanze. Tutte
quelle emozioni che creano un groviglio dentro. Metterle su carta, cantarle,
trasformarle in canzoni, è un modo per osservarle da fuori. In qualche modo è
come scattare una fotografia emotiva di un momento preciso della mia vita.
Fare musica, per me, significa proprio
questo: dare un nome a ciò che provo, capire meglio chi sono, e allo stesso
tempo prendere un po’ di distanza da ciò che mi fa male. È un atto di
consapevolezza e liberazione insieme. Credo anche che cantare il dolore sia un
modo per provare meno male.
Quali sono i cantanti che hanno
maggiormente influenzato il tuo percorso artistico?
Nel mio percorso artistico ci sono stati
tanti incontri musicali significativi. Fin da piccolo, grazie a mia madre, ho
avuto la fortuna di ascoltare artisti come Lucio Battisti e Lucio Dalla: erano
la colonna sonora di casa, le loro canzoni mi arrivavano anche prima che
potessi capirne davvero le parole. Sono stati fondamentali per farmi percepire
la potenza emotiva che può avere una canzone.
Poi, crescendo, ho iniziato a costruire il
mio gusto musicale e ad avvicinarmi ad altri cantautori che hanno lasciato un
segno forte. Cesare Cremonini, per esempio, ha influenzato molto il mio modo di
scrivere: la sua capacità di raccontare il quotidiano con poesia e leggerezza è
qualcosa che ammiro tantissimo. Allo stesso modo, l’ondata indie italiana – da
Calcutta a Gazzelle – mi ha fatto capire che si può parlare di emozioni con un
linguaggio diretto, senza perdere profondità.
Ma le mie radici affondano anche nel rap. Ho
iniziato proprio scrivendo rap, e artisti come Marracash, Fabri Fibra e Inoki
sono stati fondamentali per farmi avvicinare alla scrittura. Dal rap ho
imparato la sincerità cruda, la necessità di dire le cose come stanno, senza
filtri. Anche se oggi scrivo in una forma più cantautorale, quel tipo di
approccio è rimasto dentro di me.
Insomma, il mio percorso è fatto di ascolti
molto diversi tra loro, ma che in qualche modo si sono incontrati dentro la mia
musica, fondendosi nel mio modo di raccontare le emozioni.
Con chi ti piacerebbe collaborare o duettare?
A livello autorale, uno dei miei sogni più
grandi sarebbe collaborare con Mogol. Parliamo del maestro assoluto della
canzone italiana, una figura che rappresenta l’eccellenza nella scrittura. Ogni
volta che scrivo un testo, dentro di me c’è un desiderio quasi nascosto di
riuscire a toccare almeno un briciolo della profondità con cui lui sapeva
raccontare le cose semplici. Aveva una capacità straordinaria di entrare
nell’anima delle piccole cose e di guardarle da angolazioni nuove,
sorprendenti. Per me, quello è il vertice della scrittura.
A livello di duetti, mi piacerebbe moltissimo
collaborare con Nayt, che stimo tantissimo per la sua scrittura lucida,
profonda e sempre personale. E poi mi piacerebbe anche duettare con Gazzelle,
perché riesce a dare voce a un certo tipo di malinconia con una leggerezza e
una melodia che sento molto vicine al mio mondo musicale.
Parliamo del tuo ultimo singolo: come è nata l’idea per
questo brano?
“Se tu fossi qui” nasce da un’esigenza
profonda: quella di liberarmi da un peso che mi portavo dentro e da un imbarazzo
che provavo nei confronti di una situazione che mi sono vissuto con una ragazza.
Mi ero innamorato di una mia amica, una persona con cui avevo un legame
bellissimo. Quando ho trovato il coraggio di confessarle ciò che provavo, oltre
al gran palo – diciamolo, una friendzone devastante – si è rotta completamente
anche l’amicizia.
Quella perdita, quella rottura totale, mi ha
lasciato un vuoto enorme. C’era dolore per quello che non è stato, ma anche per
quello che si è perso. E così è nata la canzone, come uno sfogo. Dentro ci sono
nostalgia, malinconia, rammarico, e anche un po’ di ironia, quella che cerco
sempre di usare per alleggerire il cuore. Perché a volte, per non piangere, non
ti resta che riderci su.
Qualche novità che vuoi condividere, in anteprima, con i
nostri lettori?
Usciranno
tante tante canzoni quest’anno, quindi “Stayyyy tuuuned”