Creare una saga familiare è un’impresa impegnativa,
soprattutto quando si vuole raccontare un Novecento italiano popolare, fatto di
tradizioni, codici etici e regole tramandate di generazione in generazione. Ci
sono storie che sembrano scritte direttamente col cuore, quasi fossero un modo
per racchiudere ricordi preziosi dell’autore e l’angoscia di perderli. La
trilogia di Anna Cantagallo - composta da Arazzo familiare, Il sole
tramonta a Mezzogiorno e Kintsugi – Riparare la vita (edito da
Castelvecchi) - rientra tra quelle opere capaci di offrire gioia e dolore in
egual misura.
Arazzo familiare ci introduce alla storia di Marigiò Pennisi,
un personaggio che incontriamo ancora nel ventre materno, ma che già in queste
prime pagine pare destinato a vivere un percorso intenso, tra conflitti
familiari e segreti rimasti troppo a lungo nell’ombra. Il “colpo di scena”
inserito dall’autrice verso la fine, per quanto possa risultare un po’ forzato,
segue uno stile che, a quanto pare, vuole essere la sua firma narrativa: a
Marigiò capita di tutto. Lo stile e l’ambientazione sembrano infatti ispirarsi
a un certo stile tipico di Donatella Di Pietrantonio e, nel secondo episodio
della saga (sebbene in modo retrospettivo, data la pubblicazione precedente), a
Come d’aria della compianta Ada d’Adamo. Le influenze letterarie si
percepiscono, così come emerge chiaramente la cultura televisiva e
cinematografica dell’autrice: il susseguirsi di situazioni drammatiche, unito ai
dialoghi e alle atmosfere di forte impatto emotivo, pare pensato per adattarsi
anche alle mode del momento, come se l’autrice avesse avvertito che fosse il
contesto giusto per raccontare questa storia. È un approccio che, d’altra
parte, sembra naturale, dal momento che Anna Cantagallo ha alle spalle anche
opere teatrali rappresentate su vari palcoscenici.
Con Il sole tramonta a Mezzogiorno, le vicende
di Marigiò si fanno più intime e drammatiche. La ritroviamo in ospedale,
devastata da un incidente che ha coinvolto Maria Paola, la figlia
biologica che anni prima aveva affidato alla sua amica Rosa, fingendosi
soltanto la zia. Il quadro è straziante: Maria Paola è in coma irreversibile,
ma incinta, e Marigiò, medico di professione, assiste impotente a questa
tragedia familiare. Al capezzale della ragazza si mescolano il senso di colpa
per un legame mai vissuto apertamente e la speranza di un miracolo, mentre i
genitori adottivi di Maria Paola, Rosa e Antonio, condividono un’angoscia che
pare non lasciare spazio ad altro. È un momento narrativo di altissima
intensità, dove passato e presente si fondono in un’unica emozione: Marigiò ha
la lucidità della professionista, ma anche la fragilità di una madre che,
proprio in quell’istante, realizza quanto tempo le sia sfuggito e quante verità
avrebbe dovuto raccontare prima che fosse troppo tardi.
Questa tensione emotiva e morale culmina in Kintsugi
– Riparare la vita, il terzo volume della trilogia, dove Marigiò appare
ormai come una donna che ha conosciuto ogni sfaccettatura del dolore. L’inizio
è un pugno allo stomaco: ci troviamo di fronte alla morte e, con essa, al
pensiero agghiacciante di poter contare sulle dita di una mano le estati che
restano da vivere. Si avverte un senso di resa che sfiora l’orrore, quello di
chi comprende che il tempo a disposizione si fa breve, che la vita, tra bombe, rivoluzioni
e traslochi, è passata in un lampo. Eppure, proprio da qui scaturisce la
capacità della protagonista di riemergere: la sua esistenza procede in mezzo a
tradimenti, rabbie sopite, distanze emotive e un passato che non smette di
bussare alle sue porte, eppure la sua determinazione a “rimettere insieme i
cocci” non viene meno. È in questo contesto che si innesta la metafora del Kintsugi,
l’arte giapponese di riparare i vasi rotti con l’oro, che diventa il simbolo di
una sofferenza trasformata in prezioso collante per ricominciare. Tutte le
ferite di Marigiò, dai lutti subiti alla sindrome del cuore infranto
(Tako-Tsubo), vengono valorizzate come parti integranti del suo percorso di
crescita.
L’intera trilogia prende corpo da un impianto corale,
in cui la voce di Marigiò si mescola a quelle di altri personaggi: il
fratellastro Kevin, la nipote Megan, i membri delle famiglie Pennisi, Vannucci
e Marini, e tante figure di contorno che arricchiscono la prospettiva. Le
ambientazioni si muovono da Roma al Salento, dagli Stati Uniti alla Death
Valley, e ogni luogo riflette una fase dell’evoluzione interiore della
protagonista. La trilogia di Anna Cantagallo conferma la sua predilezione per
le immagini forti e i flashback narrativi, creando un effetto quasi
cinematografico. È evidente una tendenza a “sceneggiare” gli eventi, a volte
con colpi di scena che possono apparire accentuati, ma che rientrano in quella
che sembra essere l’essenza del suo modo di raccontare.
Tra le pagine di Kintsugi – Riparare la vita,
si intrecciano temi fondamentali che toccano la sfera umana: il senso di colpa
e l’elaborazione del lutto, la memoria e la necessità di far pace con i propri
errori, i rapporti familiari che si rivelano a volte un bozzolo di emozioni
incontenibili, da cui però può nascere la vita nuova e la rinascita. È un
romanzo che ci invita a considerare le nostre ferite non come difetti da
nascondere, ma come solchi preziosi da colmare d’oro, trasformando la fragilità
in un punto di forza.
Tirando le somme, la saga di Anna Cantagallo si
delinea come un viaggio emotivo e culturale attraverso il secolo scorso e il
2014, con tutti i suoi contrasti. Tra gli alti e bassi, i picchi di dolore e di
gioia, i colpi di scena a volte forzati e le ispirazioni letterarie che si
respirano quasi in ogni pagina, resta forte l’idea di una scrittura “viva”. È
questa, probabilmente, la firma che la Cantagallo vuole lasciare. E in fondo,
come il Kintsugi insegna, proprio le fratture e i frammenti che ci compongono
sono ciò che ci rendono unici e più preziosi di prima.